Il reparto di chirurgia pediatrica è un posto in cui ogni persona, seppure con diverse tonalità, si trova a sostenere e a gestire emozioni intense. Soffermandomi a riflettere come se avessi uno zoom mentale, in questa fatica emotiva vedo coinvolti sia i volontari dell’associazione, sia gli operatori sanitari, sia gli infermieri, i chirurghi, i parenti, i genitori. Alla fine la messa a fuoco si restringe sui bambini e sui ragazzi ricoverati.
A tutti coloro che attraversano lo stesso corridoio della chirurgia, dunque, o per una scelta propria, come i volontari, o perché costretti dalla necessità di cura, come i genitori, viene chiesto di sopportare carichi dell’anima pesanti.
A tutti coloro che attraversano lo stesso corridoio della chirurgia, dunque, o per una scelta propria, come i volontari, o perché costretti dalla necessità di cura, come i genitori, viene chiesto di sopportare carichi dell’anima pesanti.
Spesso, in questo scenario, si creano i «non detto», pericolosi ostacoli a un sano sviluppo psicologico del bambino.
È comprensibile che, in una situazione d’emergenza o comunque preoccupante per ciò che riguarda la salute del proprio figlio, i genitori tendano a nascondere e negare la preoccupazione al loro piccolo. Anche dentro l’ospedale, così come fuori, nella vita quotidiana, i genitori sono il riferimento intorno al quale ogni bambino riesce a organizzare il proprio mondo e a interpretarlo, attraverso la mamma e il papà, rafforzando così il proprio senso di sicurezza. È solo in questo modo che il bimbo riesce a resistere alle cure chirurgiche.
In reparto, prima e dopo l’intervento chirurgico, quindi, i genitori sono chiamati a reggere il grande impegno emotivo che richiede il controllo delle proprie emozioni, sicuramente molto forti perché collegate al timore del rischio, grande o piccolo, che l’intervento comporta; controllare le proprie emozioni per riuscire a contenere quelle del proprio figlio, la paura, la rabbia, la tristezza.
Quando tutto questo finisce e arrivano le dimissioni, già appena tornati a casa, dell’intervento chirurgico non si desidera parlare più, fino ai controlli programmati, e anche quando questi finiscono, il periodo trascorso in ospedale viene tenuto lontano, a volte così lontano dalla mente dei genitori che a loro stessi sembra impossibile che sia accaduto. È una difesa naturale che i grandi mettono in atto per proteggere i propri cuccioli.
C’è qui un pericolo, però, ed è proprio quello di far nascere i «non detto». Ciò che non si può raccontare diventa pericoloso per un bambino, perché inzuppato di sentimenti d’angoscia che non si riescono a controllare e a ridurre attraverso un pensiero organizzabile. Quasi sempre l’evento chirurgico lascia il segno con cicatrici più o meno visibili; sono queste che attestano un fatto accaduto. Quando i genitori riescono a raccontare al figlio la storia che egli non può ricordare, gli offrono la possibilità non solo di conoscere una parte della propria vita, ma tessono la rete su cui il bambino può ricamare la propria storia e fantasticarla, come fanno i bambini per elaborare la propria realtà.
di Rosella Giuliani
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