L’attesa
Questo periodo ha portato a galla una riflessione sul significato delle parole e su come questo significato sia cambiato nel momento storico che stiamo vivendo. Oggi vorrei condividere con voi il significato che ha assunto per me la parola attesa.
Una delle parole che maggiormente caratterizza il nostro quotidiano oggi è attesa. Siamo in attesa di ciò che accadrà, cercando di rimanere sempre positivi (permettetemi questa “brutta parola” per il momento storico in cui stiamo vivendo) e cercando di guardare avanti, senza voltarci indietro a guardare ciò che è accaduto perché forse sarebbe troppo doloroso. Il periodo storico in cui ci troviamo, caratterizzato da incertezza e confusione, ci porta ad esplorare ed a toccare con mano ciò che le famiglie vivono durante il loro percorso chirurgico: ansia, incertezza, frustrazione, impotenza. Non vi sembrano le parole che, oggi, usiamo maggiormente? Le “abbiamo sempre in bocca” perché sono caratteristiche dello stato d’animo che stiamo vivendo e che pian pianino logora o comunque ostacola la progettazione ottimista e futura.
Ma c’è un’altra parola che ritengo significativa e soprattutto credo permetta il ponte di connessione tra la nostra vita quotidiana e ciò che le famiglie vivono all’interno del reparto: attesa. Cosa stiamo aspettando? Forse stiamo aspettando che questa pandemia si esaurisca? Aspettativa molto alta probabilmente. Forse stiamo aspettando di riprendere, almeno in parte, le nostre vite? Di poter andare ad una cena tra amici? Festeggiare il compleanno in famiglia, insieme alle persone care? Andare a bere un caffè con un amico che ascolterà ed accoglierà le nostre insicurezze? Ecco, probabilmente è questo che stiamo aspettando. Siamo quindi in uno stato di attesa. Mi immagino ognuno di noi all’interno di una bolla che sta fluttuando nel cielo in attesa di venir scoppiata, permettendo a ciò che è al suo interno di toccare nuovamente con i piedi a terra.
Ecco, questo vivono i genitori ed è forse il momento che più spaventa, quello dell’attesa. Attendono seduti, ma con le gambe tremanti, fuori dalla sala operatoria per moltissime ore: quantificabili su un orologio esterno e concreto ma non quantificabili sull’orologio interno del genitore.
Quanti pensieri popolano la loro mente in quel momento? Quante paure e quante insicurezze si presentano? Non è facile da dire, perché sono momenti così tanto intensi che lasciano anche nei genitori la cicatrice che poi ritroviamo sul corpicino del loro piccolo guerriero. L’attesa di per sé è qualcosa che può avere un’accezione positiva: l’attesa di un lieto evento, i nove mesi di attesa di una gravidanza, l’attesa del ritorno di una persona cara. Ma se ci soffermiamo a pensare ad un momento d’attesa che abbiamo vissuto, troveremo comunque quel puntino di paura che sta lì e ci tiene allertati perché qualcosa potrebbe non andare come previsto, mantiene alta quindi la nostra attenzione. Nel caso dell’attesa di un intervento chirurgico quel puntino diventa una macchia e sporca così tutta l’attesa, rendendola pesante da vivere e difficile da superare. È per questo motivo che dobbiamo cercare di esserci, quanto più possibile, durante quell’attesa: con l’accoglienza nelle case, con la presenza dei volontari in reparto e con il supporto emotivo che giorno dopo giorno viene offerto alle famiglie.
Giulia Bresciani
Responsabile aree progettuali e coordinatrice volontari di A.B.C.