La forza di un gesto
In fuga dalla guerra
Superare le distanze culturali
Non dimenticherò mai i loro sguardi al primo incontro: tanto smarriti quanto pieni di riconoscenza. Mi sono presentata con due semplicissime parole: “Angela, A.B.C.”. Sapevo che sarebbero bastate perché le mediatrici presenti, che ci hanno aiutati a superare la barriera linguistica, avevano già raccontato dell’aiuto che l’associazione avrebbe offerto loro.
Ho teso la mano per accorciare un po’ le distanze e far comprendere che, al di là del diverso linguaggio verbale, possiamo comunque trovare un punto di contatto e sentirci vicini, semplicemente in quanto esseri umani. Loro non hanno esitato a stringerla. Quello della madre, in particolare, è stato un tocco leggero ma non fugace. Ho percepito subito il bisogno e il desiderio di affidarsi a qualcuno, di trovare una mano salda che li potesse tenere ancorati e permettere loro di uscire dal turbinio degli innumerevoli cambiamenti che devono affrontare. In quel semplice gesto è emersa anche tutta la loro forza.
Le conseguenze di vivere un conflitto armato
Quando si vivono situazioni di conflitto armato si subisce un trauma, le persone sono in pericolo di vita e l’integrità fisica propria e dei propri cari rischia di essere compromessa da un momento all’altro. Fuggire per trovare cure e riparo in una terra straniera significa affrontare un brusco allontanamento dalle proprie radici, perdere improvvisamente il controllo della propria vita e cadere in un profondo senso di incertezza. Per non parlare del senso di colpa che potrebbe accompagnare coloro che sono sopravvissuti alla guerra rispetto a chi non ce l’ha fatta: la frustrazione e l’angoscia che si genera dinanzi all’impossibilità di ottenere risposta alla domanda “perché io sì e quella persona, a me cara, no?” è enorme.
Quando alla base del trauma ci sono eventi causati dall’uomo, piuttosto che catastrofi naturali, la violenza mentale subita risulta ancora più dannosa. Diventa estremamente difficile fidarsi di altri uomini. A maggior ragione, quella stretta di mano e quegli sguardi riconoscenti non mi sono sembrati banali. La loro forza è legata sicuramente al bisogno di continuare a sopravvivere ma credo che, dopo un’esperienza come quella che hanno vissuto, ci voglia davvero tanto coraggio anche solo per pensare che di qualcuno ci si possa davvero fidare.
L’importanza dell’accoglienza
Il conflitto tra bisogno di fiducia per poter necessariamente andare avanti e difficoltà nel concederla credo sia venuto fuori nel momento in cui abbiamo accompagnato la famiglia nell’appartamento che A.B.C. ha messo a loro disposizione. Ho notato sorrisi misti ad un’ispezione minuziosa degli spazi. Soprattutto lui, il ragazzo che ha riportato una ferita di guerra, girovagava in maniera frenetica per la casa, toccava mobili, interruttori. Non è riuscito ad accomodarsi subito, probabilmente aveva bisogno di controllare la situazione, toccare con mano per riappropriarsi più in generale di una percezione del controllo precedentemente perduta.
Una prospettiva futura
Superata questa fase di ingresso, abbiamo avuto modo di parlare in diversi momenti con più calma e tranquillità. Ho chiesto loro se avessero delle passioni, come avrebbero voluto trascorrere le loro giornate. Domande semplici che hanno aperto la strada ad un discorso che poteva arrivare solo fino ad un certo punto, perché prima c’è un grande ostacolo da superare: la prospettiva futura.
La guerra ha prodotto un “prima” e un “dopo”: erano pieni di sogni, oggi non ne riconoscono nemmeno uno. Prima di poterne costruire di nuovi, hanno bisogno di ritrovarsi come famiglia e ridefinirsi come persone. Il percorso sarà difficile ma non impossibile, grazie all’impegno e allo sforzo che noi tutti possiamo scegliere di fare affinché quella stretta di mano possa essere sempre più salda per ancorarli alla speranza di una nuova e diversa prospettiva, soprattutto verso l’altro.